Solitudine C'è vita forse al di là di queste quattro pareti assediate da larghi viali di città che non hanno anima nè pensieri ma solo ombre che s'incontrano senza vedersi. Una sirena nella notte lacera il silenzio.
sabato 26 ottobre 2019
CHICCHI DI GRANO
Rivedo ancora
scolpite nella memoria
con mano sicura
come parole nel marmo
immagini di contadini
ubriachi di fatica e di sole
appresso ai muli la cui pelle
appena ricopriva le ossa.
In giri ossessivi sull'aia
estraevano da batuffoli di paglia
chicchi di grano minuti
come pagliuzze di oro
passate al crivello con la sabbia.
E a sera avevano canti per i bambini
che poggiavano la testa
sul petto rotto di fatica
come su un cuscino di piume morbido.
Poesia tratta dalla raccolta di Calogero Restivo
"Senza un fil rouge"
ERANOVA Editrice Delia
domenica 6 ottobre 2019
ESTATE
Cerco invano
i panorami dell'infanzia
il giallo ripetuto all'infinito
di dipinto inquietante
dove anche gli orizzonti
sono tinti di verde.
La lava fredda sugli usci
a ricordare che il vulcano
buono ad intrattenere gente del nord
con i suoi fumi di fucina di fabbro
accesa sempre
e le sue nevi che scintillano al sole
a volte semina morte
e sconvolge i panorami.
Cerco invano il venticello
alito di valli profonde
annegate di nebbia negli inverni lunghi
ristoro che saliva verso il Castelluccio
dove trascorrevo le estati.
Ricambio in imbarazzati silenzi
il sorriso delle genti.
I canti hanno altre note
manca il rotolare del carro
sulle pietre sconnesse
e la voce cavernosa del carrettiere
che canta amori disperati
e quella del venditore di basilico
che con la sua gerla di vimini sulle spalle
inondava le vie di odori paesani noti.
Stradine strette e tortuose
e la visione di cartolina illustrata
della montagna innevata
che incombe sulle case.
E' qui ora la mia casa
e queste estati lente vedo passare
seduto in ozio al balcone
dedito a rifare i conti con il passato
a rivedere errori e gioie
e bere fino in fondo
il calice amaro dei rimpianti.
Tratta dalla raccolta " Dal mare che non c'è"
di Calogero Restivo
EDIZIONI AKKUARIA CATANIA
i panorami dell'infanzia
il giallo ripetuto all'infinito
di dipinto inquietante
dove anche gli orizzonti
sono tinti di verde.
La lava fredda sugli usci
a ricordare che il vulcano
buono ad intrattenere gente del nord
con i suoi fumi di fucina di fabbro
accesa sempre
e le sue nevi che scintillano al sole
a volte semina morte
e sconvolge i panorami.
Cerco invano il venticello
alito di valli profonde
annegate di nebbia negli inverni lunghi
ristoro che saliva verso il Castelluccio
dove trascorrevo le estati.
Ricambio in imbarazzati silenzi
il sorriso delle genti.
I canti hanno altre note
manca il rotolare del carro
sulle pietre sconnesse
e la voce cavernosa del carrettiere
che canta amori disperati
e quella del venditore di basilico
che con la sua gerla di vimini sulle spalle
inondava le vie di odori paesani noti.
Stradine strette e tortuose
e la visione di cartolina illustrata
della montagna innevata
che incombe sulle case.
E' qui ora la mia casa
e queste estati lente vedo passare
seduto in ozio al balcone
dedito a rifare i conti con il passato
a rivedere errori e gioie
e bere fino in fondo
il calice amaro dei rimpianti.
Tratta dalla raccolta " Dal mare che non c'è"
di Calogero Restivo
EDIZIONI AKKUARIA CATANIA
mercoledì 18 settembre 2019
D A Q U I
Da qui,
dai balconi di questa casa
che mi mostrano panorami
nuovi e diversi
da quelli che il ricordo
ha stampato nella memoria
da questi orizzonti
che disegnano montagne
alte fino a toccare il cielo
la nostalgia come febbre non curata
mi ritorna alle tue valli profonde
che si perdono lontano
nelle nebbie di lunghi inverni.
In fondo
nel mezzo del ferro di cavallo
che disegnano i monti
ci si aspetta di trovare il mare
che non c'è.
La nostalgia mi ritorna
al dirupo La Guardia
ed al monte San'Anna
allegoria di monte
ed ai campi tinti di giallo
più oscuro meno oscuro
secondo le stagioni.
Da qui
da cui lo sguardo volgo
a cercare confini a questo mare
che molle adagia onde su onde
sulla spiaggia deserta
nelle sere d'estate
e che nasconde profondità di baratro
il ricordo mi prende
rivedo le tue case bianche
dai tetti bassi che filtrano la luce
come la lampada accanto ai lettini
accesa la notte per fugare
la paura delle tenebri ai bambini
ed un nodo mi prende alla gola.
Da qui
ove la vita mi ha condotto
intento com'ero ad inseguire sogni
di te mi ricordo e degli affetti che custodivi
dei sogni e delle speranze che ricucivo
come un vecchio mantello
vecchio e stinto nei colori e liso
che da tutte le parti cedeva.
Da "All'alba tra i fiori di papavero"
raccolta di poesie di calogero restivo
Edizioni AKKUARIA Catania
sabato 31 agosto 2019
Contra Omnia Racalmuto: Posso fare pubblicità ad un mio libero che non sta...
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Contra Omnia Racalmuto: MISCELLANEA FUORI DAI DENTI
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sabato 29 giugno 2019
archivio e pensamenti: BLUES DEI MIETITORI. Il ciclo del pane
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mercoledì 29 maggio 2019
A MIO PADRE
Colonna di abbracci
contro venti impetuosi
che seminavano le strade e la vita
di caroselli di polvere e foglie
e resti di illusioni e speranze.
Nel sogno ricorrente
rondini in volo insieme
a sfiorare i tetti delle case
il giorno ancora appeso
alla cima del monte Castelluccio.
Cancellarti dagli occhi
il ricordo di notti insonni
intervallati da strappi di mitraglia
che rompevano il silenzio
e del gelo che le buche nel terreno
a sopravvivere come le talpe
non lenivano volevo
ma il passato ti viveva dentro.
lunedì 6 maggio 2019
Un sorriso alla sera
Ha un sorriso bonario
la sera.
Non appare stanca
della lunga giornata di afa
e di attesa di refoli di vento.
La luna
rossa di tramonto
nascosta quasi
dietro le mura del Castello
sembra un monello
la faccia accaldata di corse
nel gioco a nascondino.
Anch'io
confusione di pensieri e di sogni
di speranze e delusioni
sciolgo un sorriso e un canto
alla sera.
Poesia tratta da " Poesie di volti e memorie"
di Calogero Restivo
Prova d'Autore Editore Catania
lunedì 15 aprile 2019
A C I T R E Z Z A
Invidio i poeti
che sanno tessere versi
o comporre inni
traendo dalla memoria
immagini di Ciclopi e Veneri
sorte da cristalline acque
e adagiate su spiagge di sogno
cancellando dal panorama
-come da un ritratto mal riuscito-
immagini di ciminiere
e mari di cemento
dove un tempo alberi svettavano
sui colli vicini e sui monti.
Ruscelli garruli
scorrevano tra pietre
dal caso sconnesse.
Di te mi rimane
nella memoria e negli occhi
lo sguardo di donna
annegato nell'ampio mare
in angosciosa attesa di ritorni
stretta in uno scialle
nero come la notte
inutile sfida al vento di tempesta.
Tu vivi nel passato come un vecchio
carico d'anni e di rimpianti
e non ti accorgi che ora è la vita
e invano attendi altri dei e altre età
suonando vecchie melodie
su pianoforti scordati
Tratta dalla raccolta " Lantena sul mondo"
di Calogero Restivo
ERANOVA Editrice Delia
martedì 26 marzo 2019
Attenti! Riposo!
A me non piace marciare
ma camminare
sostare o andare
per paesi e campagne
e nei boschi
per pascere pensieri
o allevare illusioni.
Mi piace parlare con la gente
del sole che brucia l'erba appena nata
e rende sterili i raccolti
stupire gli amici
con racconti di sogni strani
inverosimili
o raccontare
di avventure immaginarie
ma senza accadimenti.
O disteso sui prati
ascoltare il lavorio del seme
che con dolore frange la zolla
e partorisce virgulti
che domani forse
saranno giganti.
Da "Lanterna sul mondo" di calogero restivo
Eranova Editrice
domenica 24 marzo 2019
Illusorie Visioni
Lunga è la notte
appesa alle sue stelle
e la luna pensosa
l'accompagna.
Ha colorato il tutto
del grigio d'ovatta
e cancellato declivi e castelli
che sformano cocuzzoli di monti
levigati dal vento e dalla pioggia.
Si sofferma sul mare finché
un fantasma di luce non l'annulla
sabato 23 marzo 2019
Silenzi
Sto
sotto un cielo
azzurro intenso
e senza veli
aggrappato
come naufrago al relitto.
Che non mi travolgano
i silenzi.
domenica 17 marzo 2019
Sulla piazzetta
Ora è tempo che sulla piazzetta, al mio paese, le spalle appoggiate al muro di vento che scende dalla chiesa di Sant'Anna, in attesa di acquirenti, per poche lire in vendita,grumi di stanchezza sotto il sole. Mietitori. Stanno,misto di afa e di sudore, la falce appesa alla spalla cotta dal sole, una "bunaca" per cuscino, ammantati di malinconia e mistero, in silenzio.
martedì 12 marzo 2019
Vecchio macello
Davano sangue da bere ai bambini perchè, rinsecchite le fonti di paura e di fame, le madri non avevano più latte.Sul muro bianco di calce, ove occhieggiavano cristalli di gesso sotto il sole, come occhi di gatto in attesa nella notte, , campeggiava la scritta " Lunga vita al..." e sotto, appena leggibile "Macello".
Indolenti i cani nell'ombra, e l'afa toglieva quasi il respiro, stavano in attesa di ossa da spolpare. Monotona la "Fontana" vicina mesceva acqua amara, e il rumore di ruscello , che scorre in un letto di pietre dal caso sconnesse, si confondeva con il canto-nenia delle lavandaie intente al loro lavoro.
mercoledì 20 febbraio 2019
archivio e pensamenti: SESSANTA SALME DI GESSO PER IL CASTELLO. Un docume...
archivio e pensamenti: SESSANTA SALME DI GESSO PER IL CASTELLO. Un docume...: Nota di Marranca. Lavori al Castello n. Cognome Nome giorni quarti Prezzo & centmi ...
domenica 17 febbraio 2019
LA SALA DEL TRONO
La sala era a forma di otto, composto
da due zeri, uno più piccolo appoggiato a una parete e l’altro più grande e in
basso a formare una grande sala.
Una porticina consentiva l’accesso a un piccolo palco su
cui poggiava una sedia-trono dalla grande spalliera.
Era una sedia, nient’altro che una
sedia che consentiva al grande Padre di
dominare tutti: dèi, semidei, uomini mortali.
La grande sala, i sedili semplici e
spartani, era destinata ad accogliere
tutti i convocati e al momento era
deserta, ma dai corridoi arrivava un
certo brusio segno che sostavano lungo i corridoi, si scambiavano notizie o
semplicemente commenti prima di entrare.
L’uomo, cioè il dio che stava seduto
lì, in alto al di sopra della sala del consiglio, si rigirava sulla sedia innervosito
dal fatto che ancora nessuno si decideva a sedere come a volere rimandare purché una convocazione generale,
straordinaria e inattesa non prometteva niente di buono.
Stava ripassando mentalmente il discorso, non voleva
apparire insicuro perché la sostanza era quella e niente e nessuno poteva
cambiarla.
Domenico Cirrinciò meglio conosciuto
come Mimì l’ursu doveva il nomignolo
al fatto che non gradiva trattenersi in piazza, specie la domenica, a far
chiacchiere con gli amici. Scendeva all’ora giusta per la messa di mezzogiorno
e diritto in chiesa a sentire messa e
predica. Finita la messa a casa “a pensare ai fatti suoi” diceva a chi,
la moglie in primis, gli rimproveravano d’essere più che riservato, un lupo
solitario. Il solo amico che si riconosceva e con cui si comportava in modo più
cristiano era Pasquale Busuito che
aveva il terreno vicino al suo, una bella roba grande che aveva costruito con
le sue mani ed anche lui di poche parole.
Spesso si ritrovavano sotto l’albero
di noci, che quanto a foglie ne aveva tante
ma niente frutti, a parlare del più e del meno e a ricordare i tempi
passati che erano belli solo perché passati.
Domenico Cirrinciò, nella sua vita,
lavoro non ne aveva mangiato tanto, come dicevano i contadini del luogo per
significare che aveva fatto solo l’indispensabile. Di certo in campagna ci
andava, la mattina prima del sorgere del sole e ritornava a sera tardi ma non
si ammazzava di lavoro. Nessuno, in coscienza poteva dire che aveva fatto
mancare il necessario alla famiglia. Un considerevole aiuto però gli veniva dalla moglie che si
industriava a cucire per il vicinato
qualche abito semplice, una sciarpa un
mantello di lana che era buono quando le giornate incominciavano con la pioggia
e con la pioggia finivano e chi si trovava tra i solchi non finiti continuava
il lavoro per non perdere la giornata di
paga.
Assuppa
viddrani lo chiamavano i contadini quello stillicidio, che era peggio della
pioggia ma con indosso quella palandrana di tela incerata si riusciva a sopportare
il disagio e a non interrompere il lavoro.
Quando finalmente giunse l’età della
pensione Domenico Cirrinciò si piazzò in casa, incominciò a sindacare su questo
e su quello, incominciò a controllare le spese
e si accorse, lo fece notare alla moglie che lo guardava come se
parlasse arabo, che in quella casa si spendeva molto.
“Per questo” disse “non si riesce a
fare un occhio alla pupa” a significare che in quella casa non si faceva alcun
risparmio e non vi erano riserve per i casi imprevisti.
Se ne stava tutto il giorno a
ciondolare per casa stretto in quel
vecchio pigiama verde che lo accompagnava ormai
dal giorno de matrimonio. A questo punto la moglie stanca e disperata a vederselo
tra i piedi a papeggiare su questo e
quello gli consigliò di andare in campagna, l’asino ancora l’aveva. Non aveva
voluto disfarsene nonostante sentisse che non ne aveva più bisogno.
“Hai la campagna” gli disse la moglie
“pianta cipolle e patate e qualche altra verdura che più si adatta al tipo di
terreno nostro, questo certamente è un risparmio. Non ti affatichi, puoi andare
quando ti senti senza doverti alzare prima dello spuntare del giorno come prima
e forse con la pensione e qualche risparmio riusciremo a fare una dote decorosa alla piccola che, anche lei,
ormai, è in età da marito.
Il discorso, stranamente, sembrò
piacergli, gli brillavano gli occhi. La moglie confusa e sospettosa non
capiva ma il gioco era fatto. Non le
importava sapere quello che il marito avrebbe potuto escogitare, le importava
solo toglierselo dai piedi.
Negli ultimi tempi questo marito che
da sempre era stato assente ai problemi che riguardavano la casa e la famiglia era diventato una palla
al piede. Andava via la mattina e
ritornava la sera e di altro non si occupava.
“Tavola stisa e pani minuzzato” gli rimproverava a volte la moglie
quando la soluzione di qualche problema
era fuori della sua portata e avrebbe avuto bisogno di un marito spalla a cui
appoggiarsi.
“In fondo è un brav’uomo” però diceva la signora Sisina
alle vicine di casa quando si toccavano certi argomenti.
Il foglio degli appunti conteneva in
sintesi gli argomenti che aveva deciso di trattare.
Non voleva sembrare indeciso cosa che avrebbe potuto scalfire il suo potere e la sua autorità
Non voleva sembrare indeciso cosa che avrebbe potuto scalfire il suo potere e la sua autorità
Quella platea di nipoti e pronipoti e
affiliati aveva raggiunto un numero tale che non era più gestibile.
“Troppo piccolo il Monte” gli aveva
detto suo Padre, per quel numero enorme e imprevisto all’origine che chissà
perché e come era dilagato senza che alcuno ponesse un freno. Guardando il
padre negli occhi si era reso conto che il discorso di porre un freno e un
ordine in quelle cose non era un consiglio ma un ordine a cui non era possibile
sottrarsi.
A un segnale del
grande Padre il brusio cessò.
Arrivò una donna fasciata in una lunga
veste bianca che le copriva
financo le dita dei piedi. Portava i capelli, lunghissimi, raccolti al sommo della testa, un seno prosperoso e un
corpo per niente appesantito dalle ripetute maternità. Andò a sedere alla
sinistra del Grande Capo, senza
profferire parola. A uno a uno incominciarono ad arrivare i figli. Si facevano
piccoli piccoli, bisbigliavano fra loro preoccupati di non fare notare al padre
che erano arrivati in ritardo.
Primi fra tutti Ebe e Vulcano che
zoppo com’era faceva più rumore di tutti con la sua gamba di legno. Presero
posto le parche: Cloto, Lachesi, Atropo
che si incontrarono sulla porta con Apollo, Diana e le nove Muse, e infine Ercole e Minosse e Radamanto
che, dietro a tutti, avanzava fischiettando in sordina un motivetto che aveva
appreso di recente.
Giunse alla fine, altera e con passo
da regina, Elena assieme a Clitennestra. Quando giunsero i gemelli Castore e
Polluce i due inservienti chiusero la porta che introduceva al palchetto
assegnato ai figli. Intanto la sala ora era piena e tutti i posti erano
occupati.
Si sentì un suono di tromba era il
segnale che tutti erano presenti. Il Padre e Capo di tutti gli dèi e dei
mortali tirò da sotto l’ampia veste, che lo cingeva e fasciava, il foglio che
aveva tenuto in petto. Si raschiò la gola, era la prima volta che si rivolgeva
a tutta l’assemblea ed era un’occasione particolare destinata a cambiare le
sorti di mortali e di immortali.
Aveva trascorso quegli anni vivendo e
lasciando vivere, curandosi solo delle sue scappatelle e de suoi sonni
ristoratori dopo aver bevuto qualche bicchiere di buon vino di quel particolare
vino destinato agli dèi. Tutto, per lui, avrebbe potuto continuare così
all’infinito se suo padre, il Tempo, non gli avesse dato un altolà. Così non
poteva continuare e se Lui non si fosse adeguato alle direttive sarebbe stato
disarcionato e mandato a gambe all’aria.
Sì, il Tempo aveva questo potere. Non interveniva spesso nelle cose degli
uomini e degli dèi ma quando lo faceva era una cosa indescrivibile, una
tragedia totale che faceva paura allo stesso padre Giove. Gli raccontava il
padre Cronos, così senza parere, non per minacciare ma per il piacere di
raccontare, che qualche cosa di simile era accaduto, una volta, una sola volta
e tutto era cambiato. Meglio non parlarne e non pensarci.
Si alzò in piedi e “Ascoltate” disse “le decisioni che fra poco
vi comunicherò riguardano tutti e ognuno di voi. Il motivo di questa riunione
generale è presto detto. Qui, in questo cocuzzolo di Monte, è diventato un
caos, ognuno pensa ai fatti suoi, si dà alla bella vita e cura i propri interessi. Si sono invertite le
parti: invece che dei mortali che imitano gli dèi, sono gli dèi che imitano i
mortali e a volte li superano. Si è
dimenticato insomma il vero motivo per cui siede su questo Monte, che è quello
di indirizzare l’opera dei mortali verso fini più alti e nobili, derimere le
controversie, ascoltarli e consigliarli quando ne hanno bisogno, farsi
ambasciatori verso di me dei loro problemi e intercedere per ottenere il
miracolo se il caso o l’attenzione delle loro pene. Da questo momento in poi il
passato è cancellato, sì cancellato” disse rispondendo al brusio che si era
sparso nell’ampia sala. “Da questo momento ognuno di voi è tenuto a rispettare
le decisioni che sto per comunicarvi.
Tirò fuori dalle ampie vesti bianche
che gli fasciavano e nascondevano il corpo vigoroso e atletico, nonostante una
bella lunga e molto ben curata barba bianca.
“Punto uno” cominciò a leggere con
voce ferma “se un dio o semidio o altro comunque abilitato a risiedere su
questo Monte sarà visto o scoperto a fare l’amore con un o una mortale, da
questo momento in poi, sarà condotto allo stato mortale, anche se da questi
amplessi sono nati figli, che anch’essi saranno mortali.
“Punto due: se un dio o semidio come
sopra meglio specificato, non assolve ai compiti loro assegnati e non risponde
all’appellativo con cui lo invocano i mortali, se disubbidisce o invita gli
altri a disobbedire, sarà, senza por
tempo in mezzo, ridotto allo stato mortale.
“Punto tre: se verrà a nostra
conoscenza che un dio o semidio si sia trasformato in uccello o albero o
qualsiasi altro elemento per circuire una donna mortale sperando che la trasformazione possa indurre
anche noi in errore, sarà ridotto immediatamente allo stato mortale.
“Punto quattro: le preghiere o
tentativi di qualsiasi natura di sottrarsi alle condanne previste non verranno
accettate né ascoltate. I condannati saranno avvertiti con delle saette o tuoni
da me inviati.
“Punto cinque: coloro non in regola
con questi nuovi comandamenti, verranno immediatamente scacciati dall’Olimpo.
“Questo è tutto e
non essendo prevista discussione e o emendamenti a quanto comunicato, l’assemblea
è sciolta. A coloro che non hanno diritto o hanno perso il diritto di risedere
su questo Monte, da questo momento in poi, verrà vietato l’accesso.
Che suo marito non rientrasse a casa
per un giorno non la preoccupava ne, a dire il vero, le dispiaceva. Ma quando
furono passati tre giorni e di suo marito non
aveva notizie la signora Teresa Cirrinciò, in famiglia chiamata Sisina,
incominciò a essere inquieta. Che fare? A sera, le luci erano accese da poco,
stretta nel suo scialle di seta che certo non la riparava dal freddo e dal
vento si recò in casa del signor Busuito
per sapere qualche cosa da lui. Ma Pasquale disse che due, tre giorni fa lo
aveva visto e salutato, suo marito. Allora, stava bene e se ne stava sotto
l’albero di noci, stretto nel suo pastrano,
a pensare o a leggere, non aveva visto bene. Il Cirrinciò gli aveva fatto un cenno di saluto
con la mano e nient’altro.
La signora Sisina era un poco
confusa. Compare Pasquale aveva detto che forse sotto il noce stava leggendo.
“Leggendo?” Si ripeteva mentalmente
“ma se appena riesce a sillabare. Nemmeno la terza elementare ha concluso”.
La signora Sisina se ne tornò a casa,
Il fatto che il vicino lo avesse visto tre giorni prima non la lasciava
tranquilla ma per quella sera non aveva niente da fare. L’indomani mattina di
buon’ora assieme alle figlie si avviò per andare a vedere di persona.
“Non aveva nemmeno di che mangiare
per un tempo così lungo” diceva la signora alle figlie come se queste non ne
fossero a conoscenza. Veramente la figlia maggiore era sposata ma abitava a pochi passi dalla
casa paterna e a volte sembrava che da quella casa non fosse mai uscita.
Arrivate al ponte Caliato che era un
ponte in cemento male ancorato e ogni
tanto la piena se lo portava via, videro compare Pasquale che si tirava dietro l’asino del Cirrinciò.
Nell’uomo a cavallo e quasi piegato sul collo dell’asino, la signora Sisina
riconobbe suo marito e incominciò a tirarsi i capelli e senza dire una sola parola,
un urlo di animale ferito le uscì dalla bocca. Non sapeva ancora cosa
era accaduto al suo uomo ma sapeva per certo che una grande tragedia si stava
abbattendo sulla sua casa. e per farsi coraggio stringeva le figlie in un
abbraccio quasi doloroso.
Ora erano passati due mesi da quel
giorno e Domenico Cirrinciò da allora stava disteso in un fondo di letto senza sapere e capire che guaio gli era capitato e se da questo
guaio si poteva guarire.
Il dottore Privitera gli aveva
consigliato di non preoccuparsi, di stare tranquillo, di non agitarsi perché
quella era la vera cura e non le compresse
che, per dovere della professione, gli aveva prescritto e che la moglie,
con puntualità quasi religiosa, lo obbligava a ingoiare.
Una di quelle mattine si svegliò e stranamente si sentì leggero. Scomparso il
dolore al petto che lo opprimeva e gli impediva di respirare, anche la testa
sgombra e sembrava scomparsa la febbre.
Gli venne voglia di alzarsi e far
vedere dalla moglie e alle figlie che finalmente era guarito.
Appena in piedi si accorse però
che le gambe non reggevano. Si appoggiò al cantarano, gli girava la testa e
rischiava di cadere per terra come un sacco vuoto.
A voce alta chiamò “” Ebe... Ebe...” e poiché
nessuno gli rispondeva incominciò a battere il portacenere di vetro contro il
piano di marmo del cantarano.
Dopo qualche minuto entrò la moglie
che gli si scagliò contro come una furia preoccupata che una caduta avrebbe
potuto peggiorare il suo stato.
“Che ebbe ed Ebe… si può sapere che
significa?” gli gridava la moglie sul naso.
Voleva piangere, un chiodo gli perforava la testa.
A un certo punto riconobbe la
moglie e cercando di apparire calmo e
sereno.
“Portami un poco d’acqua” disse e facendo
un passo indietro sempre tenendosi stretto al cantarano “mi sento un po’ male”
aggiunse come a giustificarsi e piano piano si sedette sul letto.
Incominciò a realizzare che era a
casa sua e quella era sua moglie, che questo
letto aveva diviso per tanti anni
con quella donna che ora lo aggrediva e
gridava da rompere i timpani.
Di là dalla porta si sentivano delle voci, non
riusciva a capire che cosa dicevano, forse parlavano di lui, della sua
malattia.
“Allora riepiloghiamo” si disse “sono
a casa ora e quello era un sogno. Quel
Dio seduto su quella grande poltrona
appoggiata alla parete, quel palchetto
in cui tutti i figli stavano seduti… niente esisteva ma li vedeva ancora,
chiaramente quei figli Ebe e Vulcano alla sua destra.
Lui non più seduto, coricato e
accanto al letto uomini con camici bianchi, qualcuno portava in testa una
corona d’alloro, qualcuno suonava uno strumento sconosciuto ma da cui non
uscivano suoni. Qualcuno pensoso si stringeva la fronte tra il pollice e
l’indice.
Guardò attentamente l’uomo coricato,
discorreva con i medici e con la mano indicava la testa. Stava rispondendo alle
domande dei medici.
Ma perché era in quella sala enorme,
con tanti letti, con tanta gente? Ma lo
capivano che stava male o forse erano tutti là perché stava male?
Guardando attentamente vide che
c’erano le parche, Cleto, Lachesi Atropo e Apollo. Tutto falso? Tutto
inventato dal sogno? Era nel sogno e quei nomi come gli erano
venuti in mente? Sembravano scolpiti dentro di lui, li vedeva, li riconosceva,
erano veri e lui era Domenico Cirrinciò
o no? Se stava male non poteva essere il Grande vecchio, gli dèi non si
ammalano. Ridono e cantano tutto l’anno e bevono senza ubriacarsi.
Poi si ricordò che da solo aveva
imparato a leggere, che da solo prima stentatamente e poi sempre più sciolto
quel libro aveva letto, cento, mille volte. Quei nomi gli erano entrati dentro,
facevano parte di lui, ora. Li incontrava tutti i giorni. Erano dentro quelle
pagine consumate dall’uso, tutti i giorni a leggere al punto che negli ultimi
giorni recitava a memoria, con il libro chiuso
Chiamò di nuovo e questa volta si
presentò sua figlia Giovanna.
Giovanna gli si avvicinò e lui stese
le mani, l’abbracciò e incominciò ad
accarezzarle i capelli.
ZEUS “Sei tu Giovanna vero? Non sei Ebe” disse tentando un sorriso. La ragazza si sciolse dall’abbraccio e si allontanò turbata. Uscì dalla stanza e piangendo raccontò quello che era successo e insieme tenendosi abbracciate ritornarono dove il povero Domenico stava disteso sul letto.
ZEUS “Sei tu Giovanna vero? Non sei Ebe” disse tentando un sorriso. La ragazza si sciolse dall’abbraccio e si allontanò turbata. Uscì dalla stanza e piangendo raccontò quello che era successo e insieme tenendosi abbracciate ritornarono dove il povero Domenico stava disteso sul letto.
Appena le vide fece un segno, un segno come di saluto con la mano e fini di
parlare e di sognare di dèi e semidei e dell’Olimpo e della riunione che dal momento in cui si era sentito male,
si era interrotta.
Il dottore Privitera fece segno alla signora Sisina che non c’era
più niente da fare e quando si girò per
andare via, vide che un libro o qualche
cosa che sembrava un libro si
intravedeva sotto il cuscino.
“Signora” chiese “suo marito era credente?
Sapeva leggere e scrivere.? Vedo che teneva una Bibbia sotto il
cuscino”.
La signora Sisina lo guardò
stranita, non capiva bene la domanda e
il medico indicò il libro che spuntava da fuori il cuscino. “ Non so” disse “mio marito non sa
leggere.” Il dottore andò via.
Quando incominciarono a prepararlo per consentirgli di
andare all’altro mondo con il vestito
della festa, tirarono fuori da sotto il cuscino un libricino, la copertina in
finta pelle marrone scuro che recava la scritta, in oro quasi del tutto
sbiadito, Miti e leggende dell’antica Grecia. E scritto a
matita con grafia indecisa di
Domenico Cirrinciò.
Calogero Restivo
sabato 16 febbraio 2019
martedì 12 febbraio 2019
+ IL MARE PER NOI
Il mare per noi
che vivevamo in case di gesso
che si appoggiavano le une alla altre
come vecchi ubriachi per non cadere
erano i fianchi dei monti
che si tingevano di verde
nei mesi di aprile e maggio.
Prima e dopo
il giallo assillante
di sabbia di deserto
e delle stoppie riarse.
Per noi che vivevamo
chiusi come in una riserva
dai monti che circondavano il paese
il mare era un colore
ed un racconto che si scopriva
quando si incominciava a sillabare
nei vecchi libri di lettura.
Non era facile capire però
quanto era grande
e quanta acqua conteneva
cento-mille volte forse
la vasca della Fontana
da cui si attingeva acqua
e torcicollo le donne
che altere e quasi regali
le brocche le portavano sulla testa
difese solo da una "spera"
di vecchio scampolo di stoffa.
Attaccati alle gonne
occhi affamati e nasi gocciolanti.
Poi arrivavano i poveri
che si dicevano diventati ricchi
all'altro capo del mondo
che raccontavano
che l'America era così lontana
che occorreva navigare trenta giorni
e forse più circondati sempre
da acque torbide smosse da venti
con onde alte come palazzi
che in quel paese li facevano alti
fino a "grattare "il cielo.
Noi bambini ascoltavamo
la bocca aperta
come quando attorno al braciere
i vecchi
raccontavano le storie di Orlando
eroe innamorato della bella Angelica
che si fece scoppiare il fegato
a soffiare inutilmente nel corno
per cercare l'aiuto che non venne
senza capire ma rapiti
dal suono nenia delle prole
che conciliavano il sonno.
Poesia tratta dalla raccolta "L'erba maligna"
Edizioni Lampi di stampa Milano
che vivevamo in case di gesso
che si appoggiavano le une alla altre
come vecchi ubriachi per non cadere
erano i fianchi dei monti
che si tingevano di verde
nei mesi di aprile e maggio.
Prima e dopo
il giallo assillante
di sabbia di deserto
e delle stoppie riarse.
Per noi che vivevamo
chiusi come in una riserva
dai monti che circondavano il paese
il mare era un colore
ed un racconto che si scopriva
quando si incominciava a sillabare
nei vecchi libri di lettura.
Non era facile capire però
quanto era grande
e quanta acqua conteneva
cento-mille volte forse
la vasca della Fontana
da cui si attingeva acqua
e torcicollo le donne
che altere e quasi regali
le brocche le portavano sulla testa
difese solo da una "spera"
di vecchio scampolo di stoffa.
Attaccati alle gonne
occhi affamati e nasi gocciolanti.
Poi arrivavano i poveri
che si dicevano diventati ricchi
all'altro capo del mondo
che raccontavano
che l'America era così lontana
che occorreva navigare trenta giorni
e forse più circondati sempre
da acque torbide smosse da venti
con onde alte come palazzi
che in quel paese li facevano alti
fino a "grattare "il cielo.
Noi bambini ascoltavamo
la bocca aperta
come quando attorno al braciere
i vecchi
raccontavano le storie di Orlando
eroe innamorato della bella Angelica
che si fece scoppiare il fegato
a soffiare inutilmente nel corno
per cercare l'aiuto che non venne
senza capire ma rapiti
dal suono nenia delle prole
che conciliavano il sonno.
Poesia tratta dalla raccolta "L'erba maligna"
Edizioni Lampi di stampa Milano
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