domenica 17 febbraio 2019


LA SALA DEL TRONO   
La sala era a forma di otto, composto da due zeri, uno più piccolo appoggiato a una parete e l’altro più grande e in basso a formare una grande sala.
Una porticina  consentiva l’accesso a un piccolo palco su cui poggiava una sedia-trono dalla grande spalliera.
Era una sedia, nient’altro che una sedia che consentiva al grande Padre di  dominare tutti: dèi, semidei, uomini mortali.
La grande sala, i sedili semplici e spartani,  era destinata ad accogliere tutti  i convocati e al momento era deserta, ma dai corridoi  arrivava un certo brusio segno che sostavano lungo i corridoi, si scambiavano notizie o semplicemente commenti prima di entrare.
L’uomo, cioè il dio che stava seduto lì, in alto al di sopra della sala del consiglio, si rigirava sulla sedia innervosito dal fatto che ancora nessuno si decideva a sedere come a volere rimandare  purché una convocazione generale, straordinaria e inattesa non prometteva niente di buono. 
Stava ripassando mentalmente il discorso, non voleva apparire insicuro perché la sostanza era quella e niente e nessuno poteva cambiarla. 
Domenico Cirrinciò meglio conosciuto come Mimì l’ursu doveva il nomignolo al fatto che non gradiva trattenersi in piazza, specie la domenica, a far chiacchiere con gli amici. Scendeva all’ora giusta per la messa di mezzogiorno e diritto in chiesa  a sentire messa e predica.  Finita la messa  a casa “a pensare ai fatti suoi” diceva a chi, la moglie in primis, gli rimproveravano d’essere più che riservato, un lupo solitario. Il solo amico che si riconosceva e con cui si comportava in modo più cristiano era Pasquale Busuito che aveva il terreno vicino al suo, una bella roba grande che aveva costruito con le sue mani ed anche lui di poche parole.
Spesso si ritrovavano sotto l’albero di noci, che quanto a foglie ne aveva tante  ma niente frutti, a parlare del più e del meno e a ricordare i tempi passati che erano belli solo perché passati.
Domenico Cirrinciò, nella sua vita, lavoro non ne aveva mangiato tanto, come dicevano i contadini del luogo per significare che aveva fatto solo l’indispensabile. Di certo in campagna ci andava, la mattina prima del sorgere del sole e ritornava a sera tardi ma non si ammazzava di lavoro. Nessuno, in coscienza poteva dire che aveva fatto mancare il necessario alla famiglia. Un considerevole aiuto  però gli veniva dalla moglie che si industriava a cucire  per il vicinato qualche abito semplice, una sciarpa  un mantello di lana che era buono quando le giornate incominciavano con la pioggia e con la pioggia finivano e chi si trovava tra i solchi non finiti continuava il  lavoro per non perdere la giornata di paga.
Assuppa viddrani lo chiamavano i contadini quello stillicidio, che era peggio della pioggia ma con indosso quella palandrana di tela incerata si riusciva a sopportare il disagio e a non interrompere il lavoro.
Quando finalmente giunse l’età della pensione Domenico Cirrinciò si piazzò in casa, incominciò a sindacare su questo e su quello, incominciò a controllare le spese  e si accorse, lo fece notare alla moglie che lo guardava come se parlasse arabo, che in quella casa si spendeva molto.
“Per questo” disse “non si riesce a fare un occhio alla pupa” a significare che in quella casa non si faceva alcun risparmio e non vi erano riserve per i casi imprevisti.
Se ne stava tutto il giorno a ciondolare per casa  stretto in quel vecchio pigiama verde che lo accompagnava ormai  dal giorno de matrimonio. A questo punto la moglie stanca e disperata a vederselo tra i piedi a papeggiare su questo e quello gli consigliò di andare in campagna, l’asino ancora l’aveva. Non aveva voluto disfarsene nonostante sentisse che non ne aveva più bisogno.
“Una bocca in più da sfamare” rimuginava  fra sé e sé ma l‘asino era rimasto.
“Hai la campagna” gli disse la moglie “pianta cipolle e patate e qualche altra verdura che più si adatta al tipo di terreno nostro, questo certamente è un risparmio. Non ti affatichi, puoi andare quando ti senti senza doverti alzare prima dello spuntare del giorno come prima e forse con la pensione e qualche risparmio riusciremo a fare una  dote decorosa alla piccola che, anche lei, ormai, è in età da marito.
Il discorso, stranamente, sembrò piacergli, gli brillavano gli occhi. La moglie confusa e sospettosa non capiva  ma il gioco era fatto. Non le importava sapere quello che il marito avrebbe potuto escogitare, le importava solo toglierselo dai piedi.
Negli ultimi tempi questo marito che da sempre era stato assente ai problemi che riguardavano  la casa e la famiglia era diventato una palla al piede. Andava via la mattina  e ritornava la sera e di altro non si occupava.  “Tavola stisa e pani minuzzato” gli rimproverava a volte la moglie quando  la soluzione di qualche problema era fuori della sua portata e avrebbe avuto bisogno di un marito spalla a cui appoggiarsi.
“In fondo è un brav’uomo” però diceva la signora Sisina alle vicine di casa quando si toccavano certi argomenti.
Il foglio degli appunti conteneva in sintesi gli argomenti che aveva deciso di trattare.
Non voleva  sembrare indeciso cosa che avrebbe potuto scalfire il suo potere e la sua autorità 
Quella platea di nipoti e pronipoti e affiliati aveva raggiunto un numero tale che non era più gestibile.
“Troppo piccolo il Monte” gli aveva detto suo Padre, per quel numero enorme e imprevisto all’origine che chissà perché e come era dilagato senza che alcuno ponesse un freno. Guardando il padre negli occhi si era reso conto che il discorso di porre un freno e un ordine in quelle cose non era un consiglio ma un ordine a cui non era possibile sottrarsi.
A un segnale del grande Padre il brusio cessò.
 Arrivò una donna fasciata in una lunga  veste bianca  che le copriva financo le dita dei piedi. Portava i capelli, lunghissimi, raccolti  al sommo della testa, un seno prosperoso e un corpo per niente appesantito dalle ripetute maternità. Andò a sedere alla sinistra del Grande Capo,  senza profferire parola. A uno a uno incominciarono ad arrivare i figli. Si facevano piccoli piccoli, bisbigliavano fra loro preoccupati di non fare notare al padre che erano arrivati in ritardo.
Primi fra tutti Ebe e Vulcano che zoppo com’era faceva più rumore di tutti con la sua gamba di legno. Presero posto le parche: Cloto, Lachesi, Atropo  che si incontrarono sulla porta con Apollo, Diana e  le nove Muse, e infine Ercole e Minosse e Radamanto che, dietro a tutti, avanzava fischiettando in sordina un motivetto che aveva appreso di recente.
Giunse alla fine, altera e con passo da regina, Elena assieme a Clitennestra. Quando giunsero i gemelli Castore e Polluce i due inservienti chiusero la porta che introduceva al palchetto assegnato ai figli. Intanto la sala ora era piena e tutti i posti erano occupati.
Si sentì un suono di tromba era il segnale che tutti erano presenti. Il Padre e Capo di tutti gli dèi e dei mortali tirò da sotto l’ampia veste, che lo cingeva e fasciava, il foglio che aveva tenuto in petto. Si raschiò la gola, era la prima volta che si rivolgeva a tutta l’assemblea ed era un’occasione particolare destinata a cambiare le sorti di mortali e di immortali.
Aveva trascorso quegli anni vivendo e lasciando vivere, curandosi solo delle sue scappatelle e de suoi sonni ristoratori dopo aver bevuto qualche bicchiere di buon vino di quel particolare vino destinato agli dèi. Tutto, per lui, avrebbe potuto continuare così all’infinito se suo padre, il Tempo, non gli avesse dato un altolà. Così non poteva continuare e se Lui non si fosse adeguato alle direttive sarebbe stato disarcionato e mandato a  gambe all’aria. Sì, il Tempo aveva questo potere. Non interveniva spesso nelle cose degli uomini e degli dèi ma quando lo faceva era una cosa indescrivibile, una tragedia totale che faceva paura allo stesso padre Giove. Gli raccontava il padre Cronos, così senza parere, non per minacciare ma per il piacere di raccontare, che qualche cosa di simile era accaduto, una volta, una sola volta e tutto era cambiato. Meglio non parlarne e non pensarci.
Si alzò in piedi e  “Ascoltate” disse “le decisioni che fra poco vi comunicherò riguardano tutti e ognuno di voi. Il motivo di questa riunione generale è presto detto. Qui, in questo cocuzzolo di Monte, è diventato un caos, ognuno pensa ai fatti suoi, si dà alla bella vita e cura  i propri interessi. Si sono invertite le parti: invece che dei mortali che imitano gli dèi, sono gli dèi che imitano i mortali  e a volte li superano. Si è dimenticato insomma il vero motivo per cui siede su questo Monte, che è quello di indirizzare l’opera dei mortali verso fini più alti e nobili, derimere le controversie, ascoltarli e consigliarli quando ne hanno bisogno, farsi ambasciatori verso di me dei loro problemi e intercedere per ottenere il miracolo se il caso o l’attenzione delle loro pene. Da questo momento in poi il passato è cancellato, sì cancellato” disse rispondendo al brusio che si era sparso nell’ampia sala. “Da questo momento ognuno di voi è tenuto a rispettare le decisioni che sto per comunicarvi.
Tirò fuori dalle ampie vesti bianche che gli fasciavano e nascondevano il corpo vigoroso e atletico, nonostante una bella lunga e molto ben curata barba bianca.
“Punto uno” cominciò a leggere con voce ferma “se un dio o semidio o altro comunque abilitato a risiedere su questo Monte sarà visto o scoperto a fare l’amore con un o una mortale, da questo momento in poi, sarà condotto allo stato mortale, anche se da questi amplessi sono nati figli, che anch’essi saranno mortali.
“Punto due: se un dio o semidio come sopra meglio specificato, non assolve ai compiti loro assegnati e non risponde all’appellativo con cui lo invocano i mortali, se disubbidisce o invita gli altri a disobbedire, sarà,  senza por tempo in mezzo, ridotto allo stato mortale.
“Punto tre: se verrà a nostra conoscenza che un dio o semidio si sia trasformato in uccello o albero o qualsiasi altro elemento per circuire una donna mortale  sperando che la trasformazione possa indurre anche noi in errore, sarà ridotto immediatamente allo stato mortale.
“Punto quattro: le preghiere o tentativi di qualsiasi natura di sottrarsi alle condanne previste non verranno accettate né ascoltate. I condannati saranno avvertiti con delle saette o tuoni da me inviati.
“Punto cinque: coloro non in regola con questi nuovi comandamenti, verranno immediatamente scacciati dall’Olimpo.
“Questo è tutto  e non essendo prevista discussione e o emendamenti a quanto comunicato, l’assemblea è sciolta. A coloro che non hanno diritto o hanno perso il diritto di risedere su questo Monte, da questo momento in poi, verrà vietato l’accesso.
Che suo marito non rientrasse a casa per un giorno non la preoccupava ne, a dire il vero, le dispiaceva. Ma quando furono passati tre giorni e di suo marito non  aveva notizie la signora Teresa Cirrinciò, in famiglia chiamata Sisina, incominciò a essere inquieta. Che fare? A sera, le luci erano accese da poco, stretta nel suo scialle di seta che certo non la riparava dal freddo e dal vento  si recò in casa del signor Busuito per sapere qualche cosa da lui. Ma Pasquale disse che due, tre giorni fa lo aveva visto e salutato, suo marito. Allora, stava bene e se ne stava sotto l’albero di noci, stretto nel suo pastrano,  a pensare o a leggere, non aveva visto bene. Il   Cirrinciò gli aveva fatto un cenno di saluto con la mano e nient’altro.
La signora Sisina era un poco confusa. Compare Pasquale aveva detto che forse sotto il noce stava leggendo.
“Leggendo?” Si ripeteva mentalmente “ma se appena riesce a sillabare. Nemmeno la terza elementare ha concluso”.
La signora Sisina se ne tornò a casa, Il fatto che il vicino lo avesse visto tre giorni prima non la lasciava tranquilla ma per quella sera non aveva niente da fare. L’indomani mattina di buon’ora assieme alle figlie si avviò per andare  a vedere di persona.
“Non aveva nemmeno di che mangiare per un tempo così lungo” diceva la signora alle figlie come se queste non ne fossero a conoscenza. Veramente la figlia maggiore  era sposata ma abitava a pochi passi dalla casa paterna e a volte sembrava che da quella casa non fosse mai uscita.
Arrivate al ponte Caliato che era un ponte in cemento male ancorato  e ogni tanto la piena se lo portava via, videro compare Pasquale che  si tirava dietro l’asino del Cirrinciò. Nell’uomo a cavallo e quasi piegato sul collo dell’asino, la signora Sisina riconobbe suo marito e incominciò a tirarsi i capelli e senza dire una sola  parola,   un urlo di animale ferito le uscì dalla bocca. Non sapeva ancora cosa era accaduto al suo uomo ma sapeva per certo che una grande tragedia si stava abbattendo sulla sua casa. e per farsi coraggio stringeva le figlie in un abbraccio quasi doloroso.
Ora erano passati due mesi da quel giorno e Domenico Cirrinciò da allora stava disteso in  un fondo di letto senza sapere e capire  che guaio gli era capitato e se da questo guaio si poteva guarire.
Il dottore Privitera gli aveva consigliato di non preoccuparsi, di stare tranquillo, di non agitarsi perché quella era la vera cura e non le compresse  che, per dovere della professione, gli aveva prescritto e che la moglie, con puntualità quasi religiosa, lo obbligava a ingoiare.
Una di quelle mattine si svegliò  e stranamente si sentì leggero. Scomparso il dolore al petto che lo opprimeva e gli impediva di respirare, anche la testa sgombra e sembrava scomparsa la febbre.  Gli venne voglia di alzarsi  e far vedere dalla moglie e alle figlie che finalmente era guarito.
Appena in piedi si accorse però che  le gambe non reggevano. Si  appoggiò al cantarano, gli girava la testa e rischiava di cadere per terra come un sacco vuoto.
 A voce alta chiamò “” Ebe... Ebe...” e poiché nessuno gli rispondeva incominciò a battere il portacenere di vetro contro il piano di marmo del cantarano.
Dopo qualche minuto entrò la moglie che gli si scagliò contro come una furia preoccupata che una caduta avrebbe potuto peggiorare il suo stato.
“Che ebbe ed Ebe… si può sapere che significa?” gli gridava la moglie sul naso.  Voleva piangere, un chiodo gli perforava la testa.
A un certo punto riconobbe la moglie  e cercando di apparire calmo e sereno.
“Portami un poco d’acqua” disse e facendo un passo indietro sempre tenendosi stretto al cantarano “mi sento un po’ male” aggiunse come a giustificarsi e piano piano si sedette sul letto.
Incominciò a realizzare che era a casa sua e quella era sua moglie, che questo  letto  aveva diviso per tanti anni con quella donna  che ora lo aggrediva e gridava da rompere i timpani.
 Di là dalla porta si sentivano delle voci, non riusciva a capire che cosa dicevano, forse parlavano di lui, della sua malattia.
“Allora riepiloghiamo” si disse “sono a casa ora  e quello era un sogno. Quel Dio seduto su quella grande  poltrona appoggiata  alla parete, quel palchetto in cui tutti i figli stavano seduti… niente esisteva ma li vedeva ancora, chiaramente quei figli Ebe e Vulcano alla sua destra.
Lui non più seduto, coricato e accanto al letto uomini con camici bianchi, qualcuno portava in testa una corona d’alloro, qualcuno suonava uno strumento sconosciuto ma da cui non uscivano suoni. Qualcuno pensoso si stringeva la fronte tra il pollice e l’indice.
Guardò attentamente l’uomo coricato, discorreva con i medici e con la mano indicava la testa. Stava rispondendo alle domande dei medici.
Ma perché era in quella sala enorme, con tanti letti, con tanta gente?  Ma lo capivano che stava male o forse erano tutti là perché stava male? 
Guardando attentamente vide che c’erano le parche, Cleto, Lachesi Atropo e Apollo. Tutto falso? Tutto inventato  dal sogno?  Era nel sogno e quei nomi come gli erano venuti in mente? Sembravano scolpiti dentro di lui, li vedeva, li riconosceva, erano veri e lui era Domenico  Cirrinciò o no? Se stava male non poteva essere il Grande vecchio, gli dèi non si ammalano. Ridono e cantano tutto l’anno e bevono senza ubriacarsi.
Poi si ricordò che da solo aveva imparato a leggere, che da solo prima stentatamente e poi sempre più sciolto quel libro aveva letto, cento, mille volte. Quei nomi gli erano entrati dentro, facevano parte di lui, ora. Li incontrava tutti i giorni. Erano dentro quelle pagine consumate dall’uso, tutti i giorni a leggere al punto che negli ultimi giorni recitava a memoria, con il libro chiuso
Chiamò di nuovo e questa volta si presentò sua figlia Giovanna.
Giovanna gli si avvicinò e lui stese le mani, l’abbracciò  e incominciò ad accarezzarle i capelli.

ZEUS “Sei tu Giovanna vero? Non sei Ebe”  disse tentando un sorriso. La ragazza si sciolse dall’abbraccio e si allontanò turbata.  Uscì dalla stanza e piangendo raccontò quello che era successo e insieme tenendosi abbracciate ritornarono dove il povero Domenico stava disteso sul letto.
Appena le vide fece un segno,  un segno come di saluto con la mano e fini di parlare e di sognare di dèi e semidei e dell’Olimpo e della riunione  che dal momento in cui si era sentito male, si era interrotta.
Il dottore Privitera  fece segno alla signora Sisina che non c’era più niente da fare  e quando si girò per andare via, vide che un  libro o qualche cosa che sembrava un libro  si intravedeva sotto il cuscino.
“Signora”  chiese “suo marito era  credente?  Sapeva leggere e scrivere.? Vedo che teneva una Bibbia sotto il cuscino”.
La signora Sisina lo guardò stranita,  non capiva bene la domanda e il medico indicò il libro che spuntava da fuori il cuscino. “ Non so” disse “mio marito non sa leggere.”  Il dottore andò via.
Quando incominciarono a prepararlo per consentirgli di andare all’altro mondo  con il vestito della festa, tirarono fuori da sotto il cuscino un libricino, la copertina in finta pelle marrone scuro che recava la scritta, in oro quasi del tutto sbiadito, Miti e  leggende dell’antica Grecia. E scritto a matita con grafia  indecisa  di Domenico Cirrinciò.
Calogero Restivo

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